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Scrivere e dintorni

~ La bellezza salverà il mondo

Scrivere e dintorni

Archivi Mensili: novembre 2011

Il piedistallo di cristallo: la discesa degli dei

27 domenica Nov 2011

Posted by agroedolce in Elucubrazioni mentali, Scrivere

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art fusion, arte, filosofia, simbolismo

Il pittore è un poeta solitario, ama il crepuscolo, le ombre della sera sono le sue compagne, perché si nascondono negli anfratti della notte e spariscono all’alba, il pittore come il poeta, ha paura delle sue ombre, dannato nella sublimazione di se. Unico profeta, raramente ama il confronto, i colori come le parole sono divinità schizzinose, poco inclini a scendere sulla terra.

Il mondo cambia e gli unici purtroppo a non accorgersene sono i pittori e i poeti, il loro universo è fatto a loro immagine e come il riflesso del sole acceca. Il poeta come il pittore vive di se…per se, ma se intravede quello spiraglio che sta tra la notte e l’alba, se scende dal suo piedistallo di cristallo, e si mischia al fango della terra, scoprirà che la sua arte può solo crescere e far germogliare nuovi fiori che presto daranno nuovi frutti e questi frutti abbelliranno la sua casa e cioè il mondo.

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Le remords de Pierrot

22 martedì Nov 2011

Posted by agroedolce in Arte, Elucubrazioni mentali, Scrivere

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arte, fotografia, pensieri, poesia, simbolismo

Il Rimorso di Pierrot

Mi ricordo di un passato recente, quando l’aria salmastra del mare, lambiva timida le gote umide della terra.

L’invidia e la follia, presero allora della argilla dal grembo materno, plasmarono una maschera e la regalarono agli uomini. Da quel momento i giorni sulla terra non furono più gli stessi.

A passi leggeri come una danza sospesa, l’ego si travestì, s’indorò di purpurea gentilezza, colorò le sue vesti dell’arcobaleno, manipolò il tempo e abbagliò gli occhi degli dei.

Dipinse i sogni di polvere di stelle cadente, mentre il suo canto induceva all’oblio.

Goffo il suo intercedere, impaccata la favella, sciatto l’aspetto, se maschera fu mai più glorificata se non quella dell’apparenza dell’oblio, così il demone ripone il suo buffo cappello, smette il suo malconcio aspetto e invidia la luna, che da lassù seduta sul suo nero piedistallo, irradia di pallida bellezza le ombre dell’oscurità.

Mi ricordo di un passato lontano, quando la tua beltà si rifletteva tra le stelle, e tu astro tra le stelle eri la più lucente. Guardo ora la maschera che un tempo nascondeva un volto tanto amato e che ora è solo il riflesso della mia solitudine.

La Maschera Foto di Cynthia Stalteri

Occupiamo il mondo

20 domenica Nov 2011

Posted by agroedolce in Elucubrazioni mentali

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freedom, libertà, Politica, simbolismo, World

Prima che sia troppo tardi, riprendiamoci ciò che ci appartiene…Before it’s too late, take back what belongs to us

Occupiamo il mondo
Occupiamo il mondo

Invito al viaggio parte seconda: Paul n’aime pas la Provence

14 lunedì Nov 2011

Posted by agroedolce in Arte, Elucubrazioni mentali

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arte, Gauguin, impressionismo, Provenza, Van Gogh

Lettera di Vincent Van Gogh al fratello Theo, Arles, settembre 1888. Mai ho avuto una tale possibilità; qui la natura è straordinariamente bella. Dappertutto e in ogni luogo la cupola del ciclo è di un azzurro mirabile, il sole ha una radiosità di zolfo pallido ed è dolce e incantevole come la combinazione dei celesti e dei gialli dei Vermeer di Delfi. Non riesco a dipingere altrettanto bene, ma mi concentro talmente, che mi lascio andare senza pensare ad alcuna regola. … Ho deciso adesso, per partito preso, di non tracciare mai più un quadro col carboncino. Non serve a nulla: bisogna attaccare il disegno con il colore stesso, per disegnare bene.

Mentre van Gogh apprezza il paesaggio mediterraneo e dimostra grande ammirazione per il suo nuovo compagno, Gauguin rimane deluso della Provenza – «trovo tutto piccolo, meschino, i paesaggi e le persone», scrive a Bernard – e non crede possibile una lunga convivenza con Vincent, dal quale tutto lo divide: carattere, abitudini, gusti e concezioni artistiche: van Gogh «ammira molto i miei quadri, ma quando li faccio, trova sempre che ho torto qui, ho torto là. Lui è romantico, io invece sono portato verso uno stato primitivo. Dal punto di vista del colore, lui maneggia la pasta come Monticelli, io detesto fare intrugli».

Due caratteri così diversi, due mondi e due modi di percepire la natura e il colore, esploderanno la sera del 23 dicembre 1888, quando secondo il racconto di Gauguin, Vincent lo rincorre lungo la strada con in mano un rasoio. Si volta e lo fissa: Van Gogh si ferma e ritorna a casa dove, in preda a una crisi psicotica, si taglia un orecchio. Gauguin, che è andato a dormire in albergo, la mattina dopo trova i gendarmi che in un primo tempo lo fermano, accusandolo di aver ucciso l’amico, poi si rendono conto che van Gogh si è ferito da solo e dorme, e lo rilasciano. La vigilia di Natale Gauguin parte per Parigi.

In queste due epistole, in questi due frammenti di vita, il drammatico epilogo che un artista, che per sua natura, nasce, vive e muore solo. Questo viaggio è da compiersi in perfetta solitudine, lontano dai clamori di una vita normale.

Il percorso che un artista deve compiere per trovare la sua essenza, è un esplorazione, un pellegrinaggio, un viaggio di sola andata.

Cercare l’essenza delle cose, il punto d’origine, quello di partenza e di arrivo, fa dell’artista un profeta ascetico, dove solo la purezza dell’essenza lo porterà alle soglie dell’ignoto, lo porterà a chiedersi della sua stessa sua esistenza e di tutte le cose, ma questa è un altra storia…

Il ritratto di Paul Gauguin a Vincent Van Gogh

Eppure il vento soffia ancora…

10 giovedì Nov 2011

Posted by agroedolce in Elucubrazioni mentali, Scrivere

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eroi, Genova, libertà, Politica

Genova ha pianto i suoi morti, ma non li ha seppelliti sotto cumuli di macerie in modo che presto si dimentichi di loro e non bastano le voragini profonde in un cemento sporco di sangue che odora di soldi sporchi, a nascondere la vergogna di una classe politica così ladra e meschina che sta’ portando l’Italia tutta intera sull’orlo del baratro.

Né fiumi, né fango, cancelleranno dall’infamia della storia di coloro che ancora oggi vomitano parole di cordoglio e speranza a chi illusione non ha più, ai primi col vestito della festa, dai capelli sempre in ordine, dal sorriso splendente, che si riempiono la bocca di paroloni roboanti, che contengono falsità e ipocrisia, le cui mani che mai si sporcheranno mai di fango, falsi e bugiardi, che non vedono che le loro dita già grondano di sangue innocente.

Il vento “del tramonto” che dal Maghreb soffia verso il nord assopito da droghe sintetiche, sta’ ora incendiando quei giovani cuori che solo il fango e la fatica avevano sino a ora domato. Quel vento impetuoso che ha scalzato i miti dorati del potere, che ha distrutto gli idoli di gesso di arcaiche utopie, sta’ giungendo su presso quei passi che dal tempo dei romani antichi, mai hanno cessato di produrre potere e povertà. Attenti dunque, Quirinale, Viminale e Campidoglio che il tempo vostro sembra essere finito.

E mentre i vecchi dei stanchi, ebbri di sangue e lussuria, tentano un ultimo colpo di coda, dal fango di città mai dome, dalle macerie di comunità scosse dai fremiti di una terra infetta, esce alla luce del sole una nuova linfa pulsante, senza divise, senza colori, ma con una grande speranza troppo spesso negata, esige tutto ciò che da troppo tempo è stato negato. La meglio gioventù è qui adesso, una nuova generazione che forse non cambierà questo mondo malato e stanco, ma senza ombra di dubbio lo renderà migliore e laverà col sudore della speranza il fango secco di una società malata.

foto di giovani volontari a Genova

La leggenda sulla nascita della donna

07 lunedì Nov 2011

Posted by agroedolce in Elucubrazioni mentali, Racconti, Scrivere

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donne, mitologia, pensieri, scrittura, Venere

All’inizio del mondo, quando ancora le nubi del caos avvolgevano il globo appena creato, alcune lacrime di Venere cadendo dall’Eden fecondarono la terra fertile, laddove la spuma bianca del mare lambisce la rena baciata dal sole, dove anche l’orgoglioso dio dell’amore lasciò un dì la sua indelebile impronta e un’impertinente brezza cullò per tutta la notte quel misterioso seme nel suo grembo.

I primi timidi raggi d’un giovane sole carezzavano la bianca rena, che come un bimbo protrae le sue braccia verso sua madre, una giovane pianta dai morbidi germogli ancora vellutati, già carichi di una dolce fragranza inondava l’aria d’intorno. Così sfiorando languidamente quelle fragili gemme, si potevano scorgere semi-nascosti dal verde fogliame, dei piccoli frutti dai variegati colori, che già emanavano effluvi delicati.

Profumi che a contatto con l’aria frizzante del mattino generò le tre virtù.La prima a nascere fu la grazia, bellezza e armonia vennero al mondo subito dopo.

Sul calare della notte un’altra creatura venuta da molto lontano, volle riposarsi sotto quella pianta, ma subito fu attratta dai quei dolci profumi e volle cibarsi di quei frutti invitanti, dopo di che, di colpo si addormentò.

Quando le luci dell’alba destarono la creatura, si accorse che dei dolci mutamenti erano avvenuti in lei, così corse a specchiarsi nelle limpide acque del mare che ne riflessero un’immagine divina, e così nacque la leggenda che vuole come sia nata la donna; così da una lacrima di Venere fecondata dalla spuma del mare, saziata dalle virtù, scolpita dalla brezza marina, pettinata dalla pioggia e baciata dagli dei.

Albero dai mille frutti, dai mille sapori e colori, che una tempesta marina colorò di passione e la indorò d’amore, da quel giorno Venere cominciò a camminare anche sulla terra.

L’uomo arrivò per secondo e anch’egli fu soggiogato e attratto da quei frutti, però la donna che benne prima di lui, gli aveva lasciato appesi su quell’albero altri tipi di frutta che non l’attraevano attratta, né per il loro colore, né per l’odore, come la forza, il possesso, l’invidia e l’odio, l’uomo affamato se ne cibò senza curarsi troppo di ciò che metteva in bocca e in quel modo venne maledetto dagli dei.

Cominciò così un periodo di guerre che insanguinarono la terra e che alimentarono i fiumi dell’ira, che intrisero la terra di lacrime, così diverse e amare da quelle versate da Venere.

Ancora oggi quel pianto ancestrale alimenta i mari e le tempeste che scuotono la terra, l’albero di Venere che si trovava sulla bianca rena è ormai secco da tempo immemorabile e lassù da qualche parte nascosti dalle nuvole sempiterne, gli dei ridono del nostro triste destino, mentre seduta in disparte Venere piange  le sue calde lacrime, aspettando che la bianca spuma del mare le fecondi ancora una volta…

Oggi Genova si riveste di nero

04 venerdì Nov 2011

Posted by agroedolce in Elucubrazioni mentali, Racconti

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Alluvione, Genova, pensieri

Quaranta anni sono passati, da quando il 7 e 8 ottobre del 1970, Genova contò 44 vittime di cui 35 morti, 8 dispersi.
Quasi mezzo secolo da quei tragici giorni, intervallati da costanti e puntuali allagamenti anche se non della stessa portata, come quelli di quell’anno nefasto.

14.610 giorni dopo, Genova come allora si trova a contare i suoi morti, a numerare i danni, a cercare nel fango i dispersi, a piangere sulle sue miserie.

Genova la superba, piega il suo capo e le sue ginocchia, china la schiena e si rimbocca le maniche, come sempre del resto. Quaranta anni sono passati e i dogi che nel tempo si sono avvicendati, anche se avevano la bandiera di un diverso colore, erano accomunati tutti da uno stesso spirito, da un uguale traguardo, e i risultati ahimè possiamo vederli con i nostri occhi continuamente.

Genova è diventata un enorme parcheggio a pagamento con più colori di Arlecchino, e come la famosa maschera è servitor di più padroni.
Genova ha più buchi di una forma di gruviera, ha più magagne di un malato immaginario, Genova sopravvive giorno dopo giorno, Genova città di vecchi, governata da vecchi, per una popolazione vecchia, che sembra odiare le luci, il suono, la musica, l’arte e i giovani. Genova che conta ancora i suoi morti, e ora se ne aggiungono dei nuovi.

Dov’è la tua superbia, dov’è la tua gloria, sottomessa e umiliata urli vendetta.

Genova, sei troppo vecchia! la tua voce è troppo roca, perché lassù qualcuno ti possa ancora sentire.

Yerek Ashkari Kirke

Yerek Ashkari Kirke
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